GIOVANI DI TUTTE LE ETA’ UNITEVI – Giovanni di Dio – Lettere dal Cielo -Angelo Nocent

GIOVANI DI TUTTE LE ETÀ UNITEVI

(Da San Giovanni di Dio – Lettere dal cielo – di Angelo Nocent)

Cari ragazzi, l’avete mai sentita questa? 

  • “Siate dunque perfetti, così com’è perfetto il Padre vostro che è in cielo” (Mt 5, 48). 

E quest’altra”? 

  • Siate santi, perché io sono santo, Io, il Signore vostro Dio!” (Lv 19, 2).

Quando queste parole mi sono giunte per la prima volta all’orecchio, non ero più giovane e sono rimasto senza fiato pensando al tanto tempo che avevo sciupato a rincorrere fantasmi.

Molti di voi non mi conoscono o, forse, hanno sentito raccontare di me qualche aneddoto. E’ che sono nato molto, molto tempo prima di voi, ossia, tanto per intenderci, proprio quando Cristoforo Colombo aveva da poco scoperto l’America. 

Non sentitevi a disagio nel parlare con me. Io sono vecchio per l’anagrafe, ma abito in un mondo dove le persone vivono un’eterna giovinezza. Sì, è una questione di aria: quella che si respira qui ossigena così bene la mente che i nostri occhi riescono persino a guardare l’Invisibile. Sto parlando di Colui che i vostri occhi non possono ancora contemplare perché morireste accecati dalla sua Luce.

Io abito in un luogo senza tempo, dove non s’invecchia, in un luogo termale, dove è sempre primavera perché abitiamo nell’armonia dei mondi, contemplando l’irresistibile Sole della Vita, quel Gesù di Nazaret di cui continuamente sentite parlare proprio perché è morto sì, com’è destino di tutti gli uomini, ma è anche risuscitato il terzo giorno e siede alla destra del Padre. 

Ora egli è il Vivente e anche voi potete incontrarlo per le vostre contrade, riconoscerlo nei volti dei sofferenti, udire la Sua voce interiore che sa parlare al cuore come nessuno. 

Qui con noi abbiamo anche una donna meravigliosa che voi tutti conoscete bene: è Maria, Sua madre e nostra sorella, anche lei assunta in Cielo in anima e corpo, per motivi che sarebbe troppo lungo spiegare.

Prima di continuare a parlare con me che vi risulto uno sconosciuto, forse gradireste che mi presentassi. Posso provarci. 

Sono nato a Montemor o Novo, sul declinare del XV secolo. Allora era uno dei borghi principali della provincia dell’Almetejo, nel Portogallo. Se vi capitasse di andare a Fatima, andate a farvi un giro anche da quelle parti. Evora la capitale, la metropoli, così denominata dai Fenici, piena di vestigia romane, era l’antica corte dei monarchi portoghesi ed è stata anche la mia diocesi.

Il mio paese, collocato a sud-est di Lisbona, sulle falde dei monti che lo proteggono dai venti freddi, oltre ad essere bagnato da un affluente del Tago, è un villaggio operoso e sorridente, ricco di frutti, una specie di oasi nella provincia, tutta arida e spopolata, austera e incolta com’è l’alta Estremadura. Spero abbiate capito che sto parlando del più bel paese del mondo. Non ci credete? Andate a vedere.

I miei genitori, gente semplice, senza cultura né fortuna, quando mi fecero battezzare mi chiamarono Joâo Cidade Duarte. In parole povere, mi chiamo Giovanni.

Dovete sapere che, quando nacqui, re del Portogallo era Giovanni II, mentre in Spagna regnavano i Re Cattolici, e nella Chiesa il Pontefice Alessandro VI.

In quest’atmosfera regale io però, nel  retrobottega della strada Verde, sono nato povero e senza la camicia. Cosa poteva venir fuori da quella contrada?

Nessuno, a cominciare dai miei genitori, ha mai pensato di trovarsi davanti a un bambino che nelle piccole e deboli mani reggeva una missione che avrebbe raggiunto i confini della terra. Nessuno poteva immaginare o presagire i disegni di Dio che si sarebbero rivelati nella fase finale della mia vita accidentata. Una specie di operaio dell’ultima ora, pagato lo stesso a giornata piena.

Oggi voi avete la TV che assorbe molto del vostro tempo, il PC, Internet, la musica stereofonica, gli aerei…Non c’è paragone con allora. Ma anche i miei tempi sono stati largamente influenzati da una grande invenzione, quella di Guttemberg che, con la stampa, ha consentito alle parole moltiplicate di incrociarsi su tutta la terra come piccioni viaggiatori.

Anche il mio era un mondo inquieto. Se Lutero è stato il dissenziente numero uno, un po’ ovunque in Europa serpeggiavano fermenti che verranno incanalati dalla Controriforma.

I nostri miti erano i navigatori:

  • Bartolomeo Diaz, il primo europeo che va al Capo di Buona Speranza;

  • Vasco de Gama, che giunge fino a Calcutta sulla costa del Malabar, per aprire il cammino delle Indie;

  • Cristoforo Colombo, che ai piedi di Isabella e Ferdinando spiega quello che altri re avevano chiamato sogno di un pazzo;

  • Sebastiano Caboto, che va nelle coste del Labrador;

Cabral, che si reca a scoprire le terre del Brasile.

 Io sono nato con l’avventura nel sangue perché era nell’aria che respiravo, nelle prime parole che ho ascoltato. Mio padre stesso era pizzicato da questo virus e più volte è stato tentato di arruolarsi nella spedizione di Vasto de Gama, per vedere terre color carne e mari infiniti, frutti giganti e uccelli da acquerello, per sfuggire alla monotonia della nostra contrada. Solo mia madre, malaticcia ma affettuosa, con me in braccio, intuendo e presagendo istintivamente che, prima o poi in casa sarebbe successo qualcosa di strano, riuscì a dissuaderlo.

Per molti, la mia è stata una fanciullezza, una adolescenza ed una giovinezza assai movimentata e instabile. Mi chiedo: ma per chi non lo è?

 A otto anni non avevo ancora visto il mare. Quello che ho potuto fare è giocare sulle sponde di un serpentello d’acqua, il torrente Caba. I miei bastimenti più veloci sono state le foglie degli alberi che vagavano, sul pelo dell’acqua, verso il Tago.

Ma devo ammettere che la mia è stata un’infanzia serena, allietata dalle mattinate domenicali, prima di andare a Messa, con la biancheria pulita, odorosa di amido e di mela. Sul piazzale ci si ritrovava un po’ tutti, grandi e piccoli, ognuno a riversare discorsi sentiti in casa, a raccoglierne dei nuovi da riportarle tra le pareti domestiche come le ultime notizie, una specie di settimanale da radio mobile. Lì abbiamo sentito raccontare e cullato nel sogno, durante la Messa, le prime storie di naviganti, uomini tatuati e forti, in cerca di terre sconosciute, lì è nato il gusto per le avventurose distanze, le celebrate terre lontane.

A frenare gli entusiasmi ci pensava mio zio Biagio Cidade, fratello di mio padre, uomo calmo e fin troppo equilibrato. Ma il personaggio decisivo, scatenante, quello che ha segnato la mia vita, aprendomi una strada e lasciandomi in mezzo ad essa, è stato un viandante casuale, come ce n’erano quasi ogni giorno una volta. I miei genitori, abituale per essi, lo hanno generosamente ospitato e sfamato, ignari di ciò che sarebbe di lì a poco accaduto.

Il viandante, rifocillato dalla cena e rinfrancato, ha cominciato a parlare, a raccontare di navigatori, di mercanti, di santi, di imperi, della Spagna e del suo viaggio, non so esattamente per quale destinazione. Si è venuti a sapere che stava camminando da tre giorni, proveniente da Lisbona. Sembrava volesse raggiungere Salamanca a piedi. Da come parlava bene, si supponeva fosse diretto alla prestigiosa Università. Io, con i gomiti sul tavolo e la testa tra le mani, lo ascoltavo e lo seguivo con gl’occhi sbarrati.

La notte ho sognato, sognato…Un sonno inquieto che mi ha permesso di svegliarmi presto, sul far del giorno, infiammato e scosso dai discorsi serali. Senza che i miei genitori se n’accorgessero, sono uscito di casa con il viandante, prendendo la salita per il torrente. Prima di lasciarmelo alle spalle per sempre, mi sono girato a guardarlo: “Addio paese mio bello! A presto!” Invece lì non sarei più tornato se non tanti anni dopo per ritrovare, ormai vecchio, solo zio Biagio, sentire i meritati rimproveri per quella fuga mai digerita, apprendere della fine dei miei genitori: la mamma morta poco dopo la mia partenza, il babbo a consumare la sua residua esistenza in un convento di frati cappuccini.

Con il mio compagno di viaggio raggiunsi Oropesa, dove ci fermammo. Lì, dopo la notte, lui sparì per sempre dalla mia vita che fu sì un’avventura, ma assai diversa da come l’avevo sognata. Per campare ho fatto di tutto: il giocoliere, il pastore, il soldato, rischiando più volte la pelle, lo scaricatore, lo spaccapietre, il venditore ambulante di libri e immagini sacre. Ed ho capito anche cose che non si devono fare: per esempio, andare via di casa a otto anni, entusiasta di seguire uno sconosciuto e far morire incoscientemente di crepacuore i miei genitori, che non mi hanno mai più rivisto.

Altri hanno preso il loro posto e mi hanno benevolmente educato, dandomi ospitalità, buoni consigli e prendendosi cura di me. Solo che io sono sempre stato un ragazzo ottuso e ostinato, deciso a fare sempre di testa mia, sbagliando talvolta, e pagando regolarmente le conseguenze dei miei errori.

Anche allora, vedendo noi giovani con l’argento vivo nelle vene, stimolati dai racconti verbali di chi tornava da paesi lontani, con una grande smania di evadere e con la passione irresistibile per conquiste e avventure, i più anziani scuotevano la testa e dicevano: di questo passo, chissà dove andremo a fine!

Ho ancora bene in mente il signor Mayoral che mi aveva adottato come un figlio. Egli mi istruì ed educò. Poi mi occupò nella custodia del gregge ed in seguito mi nominò economo e capo di tutto il personale dei vari poderi da lui amministrati. Infine, voleva a tutti i costi farmi sposare sua figlia che, detto tra noi, non mi dispiaceva affatto e, fra l’altro, mi voleva anche un sacco di bene. Non vi dico che cosa non ha tentato suo papà per convincermi. Ma io, duro, non me la sono mai sentita di fare quel passo. Mi rendevo conto che poteva essere un ottimo partito, che avrei potuto sistemarmi per benino: casa, campi, greggi, moglie, bambini, una vita serena…

Ma io avvertivo che il mio destino era un altro… Non so spiegarvelo bene neanche ora. Io ero come attratto, magnetizzato da una voce che appariva, mi affascinava e scompariva…E’ andata così per lunghi anni. Avido di avventura com’ero e di novità, ad un certo punto mi arruolai in una compagnia di fanteria. Così nel 1521 fui inviato con i reparti destinati a riprendere ai Francesi la piazzaforte di Fuenterrabìa nella Navarra.

Quest’avventura militare – devo ammetterlo – spiritualmente mi riuscì assai pericolosa: mi raffreddai nella preghiera e cominciai a trascurare anche i miei doveri religiosi.

A farmi rientrare in me stesso ci pensò una duplice disgrazia incorsami e, grazie a un  miracolo della Grazia, ossia di quella Voce interiore che mi appariva e spariva…ripresi l’antico fervore  religioso e decisi di tornare alla vita primitiva presso il Mayoral che mi accolse con l’antico affetto paterno.

Ma  quanto poteva durare? Solo per qualche anno.

Poi, nel 1528, lasciai di nuovo Oropesa e mi arruolai nell’esercito per difendere la citta di Vienna, assediata da Solimano II. Poi, quando fui congedato, tornai in Sagna.

Ma perché mi dilungo a raccontarvi di me?

 Anche perché non avete che da rivolgervi allo specchio della verità: ciò che scorgete in voi di bene o di debolezza, corrisponde a me; io vi assomiglio, ragazzi, perché sono stato un inquieto come voi, un giorno entusiasta, il successivo depresso; ho attraversato le medesime crisi d’ identità, fatto tante esperienze e commesso i miei bravi errori col voler fare sempre di testa mia, talvolta influenzato dal parere degl’altri.

Ve ne racconto ancora una: dopo un devoto pellegrinaggio a San Giacomo di Compostela, mi stabilii a Siviglia, facendo per qualche tempo il pastore per sopravvivere. Poi, in una notte di luna piena, scattò nel mio cervello un impulso irresistibile: decisi di partire per Cèuta, in Africa, in cerca del martirio e per aiutare i fratelli di fede, caduti nelle mani dei mori.

Qui mi trovai a fare il manovale, lo spaccapietre, per aiutare i poveri, ‘che ce n’erano molti.

Strinsi un legame anche con una famiglia portoghese, assai distinta, ma che era stata mandata in esilio e si era ridotta alla miseria. Così io cercavo di guadagnare il pane anche per lui e le figlie.

In quel periodo mi confidavo con un frate divenuto il mio confessore e voce di Dio. Lui mi dissuase da tante fantasie che popolavano la mia mente ed invece del martirio, mi suggerì di lasciare l’ Africa. Così m’imbarcai per Gibilterra dove dovetti inventarmi un lavoro. E’ lì che mi venne in mente di impiantare una piccola libreria ambulante, vendendo nello stesso tempo, libri di pietà, immaginette ed oggetti sacri.

Ma sentivo che la mia missione non era quella: eppure avevo ormai 41 anni di età! Così mi trovai a scongiurare  il Cielo, perché finalmente me la indicasse con precisione. Dio arriva sempre, ma con un quarto d’ora di ritardo perché ci chiede atti di fede. Che vuol dire credere senza vedere.

Nel 1536, trovandomi con la mia mercanzia di libri, la Voce si è palesata. Ero in me, ero fuori di me, io non lo so, Dio lo sa. Questa voce, dico, dolce e penetrante che mi risuonava dentro come quella di un Gesù Bambino, mi diceva: “Giovanni di Dio, Granada sarà la tua croce“. Lì per lì, non capivo e mi ripetevo dentro queste parole che, invece di opprimermi, mi scaldavano il cuore. E presi, senza pensarci due volte, la strada che conduceva a Granada, una splendida città con otto porte. Così mi ritrovai nei pressi di Porta Elvira, dove passava tanta gente e, stanco di tirare il carretto e caricarmi quei pesi sulle spalle sotto il sole o la pioggia e il vento, trovai un buco e vi aprii un piccolo negozio di libri.

Adesso su quel portone hanno messo una lapide e la mia bottega è stata trasformata in una piccola cappella. Il Signore è grande! Alleluja.

Tra alti e bassi, è andata avanti così per la bellezza di quarantacinque anni, capite? Ma sempre con quella tenue voce tra il cuore e l’orecchio, la stessa che talvolta percepite anche voi, suggestiva e discreta, inquietante e persuasiva… Qualcuno la chiama coscienza. Ma è la voce dello Spirito, il Maestro interiore.

Poi finalmente il colpo di Grazia. Un vero colpo mortale, una fucilata al mio egoismo, a quel non volermi mai decidere, a quell’ostinato rimandare. Non è più tempo di tergiversare. E qui inizia la storia di un uomo che cade da cavallo perché accecato da una Luce che viene dal Crocifisso-Risorto: “Siate santi, perché Io, il Signore Dio vostro, sono santo (Lv 19, 2).

A Granada girava parola che, per la festa di San Sebastiano, all’Eremo dei Martiri sarebbe venuto il Maestro Giovanni d’Avila, sacerdote di Dio, oratore di fama nazionale. Correva perfino voce che lo avrebbero mandato nel Messico a predicare in quelle terre. Incuriosito, quel giorno chiusi la bottega in anticipo e decisi di andare alla funzione, anche perché quel tumulto interiore che provavo era snervante, a poco a poco,  mi logorava come un tarlo.

Confuso e premuto  tra la folla in attesa, forestiero anonimo, me ne stetti a lungo in silenzioso. Senza accorgermi, la mente andava svuotandosi. Non pensavo a niente. Almeno così mi pareva. Cercavo  invece uno spazio per vedere meglio il pulpito.

Quando il Maestro d’Avila iniziò a parlare, si fece un silenzio di tomba. A poco a poco, il panegirico si fece così incisivo, efficace,  da rendere visibile nel mio immaginario il santo martire di cui praticamente conoscevo solo il nome. L’oratore raccontò che, secondo sant’ Ambrogio vescovo,  Sebastiano era nato e cresciuto a Milano, da padre di Narbona (Francia meridionale) e da madre milanese.  E che era stato educato nella fede cristiana… e che  si trasferì a Roma nel 270 per intraprendere la carriera militare fino a diventare tribuno della prima coorte della guardia imperiale…stimato per la sua lealtà e intelligenza dagli imperatori Massimiano e Diocleziano, che non sospettavano fosse cristiano.

Così appresi che, grazie alla sua funzione, poteva aiutare con discrezione i cristiani incarcerati, curare la sepoltura dei martiri e riuscire a convertire militari e nobili della corte, dove era stato introdotto da Castulo, domestico (cubicolario) della famiglia imperiale, che poi morì martire…

In verità di quella predica in seguito ricordai molto poco perché la mia mente cominciò subito a divagare… Ricordo bene però di quando parlò delle sofferenze che il santo accettò con il sorriso che Dio  dà agli eletti. Riflettendo, mi faceva arrabbiare l’idea che anch’io ero cristiano, anch’io avevo fatto il militare, anch’io aspiravo al martirio…ma mi trovavo sempre da capo, con tanti propositi e un nulla di fatto.

All’improvviso, una soave tempesta: quelle parole cominciarono a farsi luce nella mia anima, senza saper come. Luce e spasimo. Spasimo perché la luce, immensa, autentica, mi poneva di fronte alla mia anima in un faccia a faccia. Tutto ciò che sembrava invisibile, sepolto, riaffiorava: errori, peccati, omissioni, sensi di colpa…

Era doloroso. Mi faceva male l’ammettere del tempo perduto, degli anni consumati nella strana avventura di uomo disorientato, senza punti di riferimento.

Al tempo stesso, tutto ciò mi procurava un certo godimento. Mi pervase una gioia indicibile. Gioia di possedere, finalmente, una bussola orientatrice. Nella profondità dell’anima avvertivo il trapasso come da morte a vita, da tenebre a chiarità.

Ero come sollecitato da quell’antica Voce interiore che compariva e spariva. Una provocazione gigantesca, smisurata, di riparare, ricominciare, ripartire da zero…In una vita di mediocrità com’era stata la mia, tutto, tutto mi sembrava colpa. Mi sentivo straniero in casa, nella vita che mi apparteneva, nel cuore frustrato.

Poi mi prese un impulso indomabile, come di ali che mi tiravano fuori dagli abissi di me stesso per farmi volare…:  quarant’anni popolati di strade, di piccole ascensioni, di cadute. Una collezione di illusioni e delusioni…Tutto, tutto riaffiorava.

Sfioravo ancora la terra ma adesso mi pareva di poter volare. Sempre che Dio mi avesse dato il filo, più filo per volare come un aquilone tenuto dalla Sua mano.

Mi sentivo come un uccello in gabbia cui era stato aperto lo sportello. Toccava a me lasciare la triste orbita, spiccare il volo, entrare nell’orbita del Liberatore. La Voce interiore mi diceva “Seguimi”.

“Seguimi” in quel linguaggio frondoso, interiore, inudible dalla folla che mi circondava e premeva da ogni parte. Ma io comprendevo. Vedevo chiaro. Uscivo dalla cecità e capivo che i miei piccoli talenti in questi istanti potevano diventare sapienza, investimento profiquo. 

Per fare questo Dio si è servito delle parole di Giovanni d’Avila, precise, aggiustate come proiettili alla melagrana del mio cuore. Tornò a ronzarmi nell’orecchio quel “Granada sarà la tua croce !“, anche se non riuscivo a capire.

A riconciliarmi con Dio e ad indicarmi il mio posto nella Chiesa, è certamente stato Giovanni D’Avila con la sua veemenza profetica che mi ha letteralmente sconvolto. Solo col tempo capii che in me si era ripetuta la Pentecoste: “d’improviso si udì dal cielo un tuono, come di vento impetuoso che soffia e riempì tutta la casa” (Atti 2, 1-11).

Alla figura di Sebastiano trafitto dalle lance, andò sostituendosi il Crocifisso dell’ Eremo sul quale era caduto il mio sguardo, Uomo dei dolori, flagellato, martoriato, umiliato, sechernito, deriso. La sua immagine s’impresse nelle mie pupille e non mi lasciò più, fin sul letto di morte. Così l’orrore del mio trascorso si mutò in un un grido, grido folle, liberatorio, in una parola sola, di supplica: misericordia ! 

Sul mio conto ne hanno scritte tante. Adesso non so, ma ai miei tempi, più di uno era convito che io fossi proprio pazzo. Bene: qualcuno, impietosito, ha pensato addirittura di farmi assaggiare il manicomio. Dico assaggiare non a caso: a quei tempi facevano rinsavire a suon di frustate e di bagni gelati che avevano lo scopo di calmare i bollenti spiriti.

A Giovannid’Avila che capì il mio travaglio interiore, da allora apersi confidenzialmente il mio cuore lasciandomi guidare dalla sua saggezza, rimedio alla mia impulsività. Da lui, uomo spirituale dotato del carisma di discernimento, ricevetti sempre indicazioni e incoraggiamenti per la mia nuova e definitiva avventura, riassumibile in poche parole: essere una schiena a disposizione di Dio.

Mi sono dilungato troppo. Voglio solo farvi una confessione: che nel cuore io sono sempre rimasto un bambino, sino alla fine. Mai ho perso la voglia di andare, andare, andare…E quando Lui mi ha detto basta e mi ha fatto capire che Granada sarebbe stata la mia Croce, ho cominciato a seguirlo, seguirlo, seguirlo…Un bambino, sì, un bambino…

Vi dirò: io di quella Croce mi sono davvero innamorato come non mai e su di essa sono salito, felice di seguire il mio Dio, Cristo Gesù, il Crocifisso per amore.

Adesso sapete perché la mia avventura, come tutte le belle avventure, ha avuto un lieto fine: si è conclusa in braccio all’Amore. Portato in braccio perché prendessi in mano, come il Cireneo, il dolore dei miei fratelli crocifissi.

Ora basta parlare di me. Avrete sempre tempo per interrogarmi. Adesso sono io che voglio porre a ciascuno di voi una domanda a bruciapelo che sicuramente vi sorprenderà:

  • Ragazzo, dimmi, perché vivi?
  • Che ci stai a fare sulla faccia della terra?
  • Quale è lo scopo della tua vita?”.

Vedete ragazzi, questi interrogativi sono esistenziali e dovrebbero affacciarsi alla mente quasi appena iniziamo a ragionare…

  • Eppure in ogni tempo ci sono tantissime persone che non li considerano;
  • altri che, non trovando una risposta, preferiscono accantonarli;
  • altri ancora, convinti come sono che non ci possa essere una risposta o quanto meno che l’uomo non potrà mai giungere a formularla, lasciano perdere.
  • Soltanto una piccola minoranza vive consapevole del perché.

Voi m’insegnate che a tutto c’è un perché e l’uomo, malgrado il suo limite, è in grado di conoscerlo. Ovviamente in tutti i campi dello scibile umano la conoscenza non è mai perfetta; tuttavia, man mano che si procede, la conoscenza è sempre illuminante e mai rinnegata nei suoi princìpi fondamentali, anzi, più si procede e più eventualmente si arricchisce. Prendete ad esempio le tabelline: le insegnavano ai miei tempi, le insegnano ora. Cosa voglio dire? Che esse saranno sempre alla base dei calcoli anche più sofisticati della matematica. Non c’è calcolatrice che tenga.

Questa considerazione vorrebbe portarvi a una successiva: forse anche voi avete trascorso come me diversi anni senza seriamente pensare al motivo, alla ragione ultima e alla finalità dell’esistenza. Ora io, da buon nonno ultracentenario (fate voi i calcoli !), vivo nel Cielo ma con una grande attenzione per la Terra perché mi ritrovo su di essa uno stuolo di buoni Fratelli che hanno preso seriamente la vita.

Qualche volta, osservando l’andazzo, mi sono detto: perché non provocare i giovani a pensare, a riflettere, ad interrogarsi, visto che oggi sono un po’ vittime di quelle meravigliose macchine parlanti che sanno tante cose, hanno sempre le risposte pronte e pensano al loro posto?

Se qualcuno ritiene sia giunto il suo momento di affrontare i perché della vita, sono semplicemente a dirgli: bravo, coraggio! Vedrai che in questo modo davvero la tua vita diventerà interessante.

Per farvi meglio cogliere il disagio che si avverte quando non si ha la chiarezza su questo punto, proviamo a ricorrere ad un paragone che ho letto da qualche parte, assurdo, se volete, ma non più di tanto:

  • Supponiamo che un affermato professore di ematologia, il Prof. Rossi, venga invitato a tenere una relazione sulla leucemia ad un convegno internazionale in una località della Regione Lombardia;
  • Supponiamo che, partito da Roma, una volta sull’autostrada, dimentichi completamente il luogo verso cui è diretto.
  • Come potrà procedere nel suo viaggio?
  • Sa che lo stanno attendendo, ma non si ricorda dove;
  • Non può bloccarsi sull’autostrada;
  • Andare a tentativi non è conveniente…
  • In questa situazione il prof. Rossi può essere felice?
  • Sicuramente uno stato di agitazione e di ansia iniziano ad opprimerlo…
  • Ecco che improvvisamente squilla il cellulare. Un collega gli chiede se si possono incontrare a…in via tal dei tali…, prima del convegno, per proseguire poi insieme.
  • Il prof. Rossi conferma entusiasta, naturalmente guardandosi bene dall’accennare alla sua dimenticanza.
  • Si rimette in marcia e, anche se non è ancora giunto a destinazione, si sente un’altra persona. Ora sa dove deve andare e sa anche quale strada prendere.
  • Ne consegue che uno stato di gioia, pace e sicurezza invadono il suo animo;
  • Anche se troverà ostacoli lungo il cammino, riuscirà a superarli tutti.

Sì, io vorrei tanto che anche ognuno di voi che mi sta leggendo, potesse spendere il resto dei suoi anni con questa fiducia di fondo: so dove vado, so in compagnia di chi. Non c’è difficoltà al mondo che mi possa fermare.

State chiedendovi come possiamo comprendere perché esistiamo?

Vi dirò: già la nostra intelligenza potrebbe farcene conoscere la ragione, ma il cristiano è davvero facilitato in questa investigazione e voi, in particolare, avete oggi infiniti mezzi di indagine, basta che vogliate cercare. Dio lo ha detto in tutte le lingue e più ancora ne ha parlato con la stessa vita di Gesù Cristo: lo scopo della vita è uno solo: DIVENTARE SANTI.

So che questo termine spaventa. Magari uno già s’immagina deriso da tutti, emaciato dalle penitenze, vestito di sacco o addirittura con i segni del martirio sul corpo… Certo, se questo è il quadro, la tentazione di chiudere gli occhi è forte.

Essere santi però, lasciate che ve lo dica, significa essere felici. C’è forse qualcuno che non voglia esserlo? E allora perché sono così pochi quelli che aspirano a diventare santi? Perché sono pochi quelli che veramente si sono interessati a cogliere e ad approfondire questa vocazione comune a tutti.

Sì, anche tu sei chiamato ad essere santo e questo è più che un invito, perché, prima di tutto, è un dono che ti è stato elargito dall’alto. Guarda me: santo non vuol dire impeccabile; difetti, fallimenti, peccati, li ho avuti prima di te. L’importante è riconoscerli e risollevarsi con gli aiuti che Gesù stesso ha messo a disposizione.

  • Essere santi significa essere se stessi,

  • Essere la vera persona che Dio ha pensato da tutta l’eternità;

  • Significa realizzarsi secondo la verità del proprio essere,

  • Essere cioè l’autentica immagine di Dio.

Questo linguaggio vi sembra difficile, d’altri tempi? Bene, mi servirò allora di un’immagine. Un computer non è un pianoforte; se veramente voglio ricavarci qualcosa di utile devo rispettare la sua natura, devo cercare di conoscerlo e di adoperarlo secondo la sua struttura. Se lo uso come fosse la tastiera di uno strumento rischio di rovinarlo o quanto meno non ottengo quelle prestazioni che potrebbe offrirmi.

  • Tornando a noi, essere santo equivale a rispettare la propria natura di figlio di Dio,

  • Cercare di conoscere chi è Lui e chi siamo noi, per tendere a sviluppare potenzialità, doni, talenti che abbiamo, e metterli a disposizione degli altri.

  • Se tu procedi così, lascerai certamente un segno e il mondo sarà diverso semplicemente perché tu sei esistito.

  • Non si tratta di una presa in giro. Chi si guarda intorno si accorge che a lasciare tracce positive di presenza sulla faccia della terra sono proprio i santi.

Dai ragazzi! Adesso è il vostro turno. Ad ognuno il consiglio di non farsi sfuggire questa preziosa occasione. Ricordate le parole del Maestro? Ripetetevele nel cuore:

  • Voi siete il sale della terra,
  • Voi siete la luce del mondo,
  • la vostra luce risplenda,
  • vedano le vostre opere buone” Mt 5,13-16.

E’ un’interpellanza diretta a ciascuno di voi che ascoltate. Il sale della terra, la speranza del mondo, sono coloro che permettono alla terra di non inaridire, di non marcire, perché il coraggio che hanno nel proclamare la fede salva l’umanità.

La prima metafora è la più elaborata:

  • Voi siete il sale della terra” (affermazione in positivo),

  • ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato?” (la stessa cosa è detta in negativo).

  • Segue una conclusione che mostra gli effetti disastrosi del sale scipito: “A null’altro serve che a essere gettato via e calpestato dagli uomini“.

Gesù è molto esplicito: o siete discepoli autentici o siete zero, siete da buttar via, da disprezzare, siete degli infelici, degli spostati; voi siete il sale della terra, ma se di fatto non lo siete, non siete nulla.

La seconda affermazione è un’altra metafora, appena accennata, anch’essa straordinaria:

  • Voi siete la luce del mondo“. Vi sorprende che il Signore vi chiami luce, proprio dopo che Lui stesso ha detto: “Io sono la luce del mondo“? 

  • Gesù non ha paura di dire a ciascuno di voi che siete luce del mondo se vivete le beatitudini evangeliche!

  • Eccole: “Beati i poveri, i miti, i misericordiosi, gli operatori di pace, coloro che hanno fame e sete della giustizia“.

L’ultima, invece, passa al “voi“:

Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi“.

La terza affermazione cambia completamente.

  • Usa l’immagine della città, esprimendola in negativo:’Non può restare nascosta una città collocata sopra un monte”.

  • A dire: se siete discepoli, siete visti e giudicati da tutti, non potete nascondervi, tirarvi indietro;

  • se accettate la via del discepolato, avete una responsabilità pubblica che nessuno vi può togliere.

L’ultimo paragone è un po’ simile alla metafora della luce. Mentre però, la luce del mondo” faceva pensare piuttosto al sole, alla luce della creazione iniziale, qui si parla più modestamente di lucerna. Sappiamo che anche una lucerna piccola illumina un luogo buio. Gesù la descrive con un paradosso:

  • Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio“, sotto quel secchio, più o meno grande, che è una misura per contenere il grano.

  • Certo è ridicolo coprire una lucerna con un secchio, però uno fa queste cose ridicole quando non vive secondo il vangelo pur chiamandosi cristiano.

Una lucerna va messa sopra il lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa“.

  • Notate l’apertura cattolica, universale: a tutti quelli che sono nella casa,
  • credenti e non,
  • discepoli e non,
  • vicini e lontani.
  • Voi siete luce per tutti.
  • Siete luce del mondo, non dei buoni, dei cristiani, solo di quelli che ci stanno, ma del mondo intero, siete sale della terra, della terra che produce il cento per uno e di quella arida, disperata, affamata.

Gesù, dopo aver sottolineato la responsabilità del cristiano che accetta di essere discepolo, conclude con una esortazione, che riguarda in particolare la metafora della luce; ovviamente riprende anche il tema del sale e della città. “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini“. Può sembrare una contraddizione per chi conosce bene il Discorso della montagna, là dove dice: “Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini … quando preghi, chiudi la porta della tua stanza; quando fai l’elemosina, non suonare la tromba“.

C’è dunque un’apparente contraddizione fra le due esortazioni, ma voi comprendete bene che cosa significano l’una e l’altra. Gesù vuole che compiate il bene per se stesso, senza cercare gratificazioni, soddisfazioni, compensi.

Tuttavia il bene fatto non può non riverberarsi intorno. C’è la responsabilità di fare il bene per amore, e non per essere visti: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli“. Sono tre momenti progressivi e potremmo paragonarli al frutto di un albero.

  • Il frutto è bello quando è maturo sull’albero;
  • è bello quando viene mangiato;
  • è bello e buono quando nutre interiormente e lascia soddisfatti.
  • Voi siete luce per gli altri quando volete vivere il vangelo, quando siete decisi a essere discepoli;
  • siete nutrimento per gli altri quando compite le opere evangeliche;
  • siete motivo di gloria a Dio quando queste opere sono colte da altri.

Ma quali sono queste opere buone che dovete far risplendere? Non dovete cercarle lontano. Non sono quelle classiche del giudaismo (preghiera, elemosina, digiuno), bensì le opere del Discorso della montagna: mitezza, povertà, gratuità, misericordia, perdono, abbandono a Dio, fiducia, fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi. E’ il Discorso della montagna che risplende e crea quella società alternativa che non permette alla società di corrompersi del tutto. E’ un po’ come la preghiera di Abramo a Dio per Sodoma: se ci saranno almeno dieci giusti, salverai la città.

La responsabilità di essere fra coloro che sono sale e luce della città e della terra è grande. Perché, se c’è tale speranza, questo sale e questa luce daranno speranza a molti. E voi siete chiamati a essere speranza, luce, sale della terra; siete chiamati a una missione verso il mondo intero. Una missione riassumibile in un motto da scrivere sul palmo della mano, come un’icona:

  • Sei sale,
  • sei luce,
  • sii santo!

Essere luce, sale, lucerna sul lucerniere, città sul monte, vuol dire essere santi.

Ragazzi di tutte le età, anche con i capelli grigi, non abbiate paura di essere i santi del millennio che avanza. Sarebbe un controsenso accontentarvi di una vita mediocre, vissuta all’insegna di un’etica minimalista e di una religiosità superficiale.

Puntate in alto, carissimi tutti, aspiranti e professi, laici operatori nelle comunità terapeutiche e addetti ai servizi sanitari, perché è più facile essere santi che mediocri.

  • Essere mediocri significa portare la vita cristiana come un peso, lamentandosi, amareggiandosi, rammaricandosi;
  • la santità, invece, è luminosità, tensione spirituale, splendore, luce, gioia interiore, equilibrio, limpidità.
  • Il vocabolo “santità” non deve intimidirvi perché non vuol dire arrampicarsi sui vetri o vivere un eroismo impossibile, proprio solo di pochi.
  • La santità non è opera umana,
  • E’ partecipazione gratuita della santità di Dio,
  • Quindi è una grazia, un dono, prima di essere frutto del nostro sforzo.
  • Indica che tutta la persona (mente, cuore, mani, piedi) viene inserita nella sfera misteriosa della purezza, della bontà, della gratuità, della misericordia, dell’amore di Gesù.
  • E’ una consegna totale di voi, nella fede, nella speranza e nell’amore a Gesù, al Dio della vita;
  • Una consegna che si attua nella vita quotidiana vissuta con amore, serenità, pazienza, gratuità, accettando le prove e le gioie di ogni giorno con la certezza che tutto ha senso davanti a Dio, tutto è valido e importante.

Che Dio vi conceda la grazia di essere sale della terra, luce del mondo, riflesso della santità di Gesù.

Forse ancora qualcuno, sordo come me un tempo, chiuso nel suo mondo di paure, va chiedendosi: “Come faccio a diventare santo?”

Dopo le parole del Maestro, me ne guardo bene dal dirvi come ho fatto io. Preferisco rispondervi con le stesse parole con le quali quel cervellone di San Tommaso d’Aquino replicò alla sorella che gli poneva la medesima domanda: “DEVI VOLERLO !.

Arrivederci, amici.

Ce l’avete il mio cellulare?  Telefonatemi qualche volta!

Fra Valter Baldissarri. Chi era costui? Un impiegato, nato nel 1927, che lavorava nella Direzione di un ospedale milanese. Quando l’ho conosciuto, aveva 15 anni più di me e siamo diventati non solo colleghi ma amici. Lui, raggiunta l’età del pensionamento, a 54 anni, morta la mamma vedova, ha deciso di entrare in convento, tra i figli di San Giovanni di Dio.

Si potrebbe definire una vocazione dell’ultima ora. Ma quando il Signore l’ha chiamato a sé, Fra Valter contava 84 anni di età e 27 di Professione Religiosa !

Basilica di San Giovanni di Dio – Altare maggiore e urna del Santo

San Giovanni di Dio – Ex Ossibus